"Bullismo" è una parola che è tristemente entrata a far parte del nostro patrimonio linguistico solo di recente, quando cioè sono cominciati ad emergere fatti di cronaca legati a violenze e sopraffazioni fra compagni di scuola che hanno interessato solo negli ultimi anni i mass media e l'opinione pubblica. Basti pensare che fino a qualche anno fa non faceva neppure parte del dizionario della Lingua Italiana, dove compariva solo il termine "bullo" per descrivere un ragazzo spavaldo ed esibizionista che ama farsi "bello" sbeffeggiando gli altri. Addirittura questo termine non aveva un'accezione necessariamente negativa, in quanto il bullo poteva anche risultare simpatico per i suoi atteggiamenti e comportamenti scanzonati.
In realtà i termini inglesi "bullying" (per descrivere il fenomeno) e "bully" (per descrivere la persona) hanno tutta un'altra accezione, descrivendo un insieme di comportamenti di prepotenze e prevaricazioni sistematiche che arrecano un certo danno a chi li subisce.
È proprio nei paesi anglosassoni e nord europei, già alla fine degli anni '70, dove si è sviluppata maggiormente la ricerca psicosociale, definendo per primi il fenomeno e attuando programmi di prevenzione primaria e secondaria volti a ridurre il fenomeno e quindi gli effetti negativi sulle persone che ne erano vittime. Questi hanno riguardato principalmente il contesto scolastico, ovvero il luogo dove si manifestava con maggior evidenza il problema. Solo di recente la ricerca ha cominciato a guardare al bullismo anche in contesti extrascolastici (luoghi di lavoro, luoghi di socializzazione ecc.)
Anche in Italia, ma molto più tardi, si sono attuate ricerche che hanno permesso di delineare peculiarità del fenomeno nel contesto culturale che ci appartiene, sperimentando anche forme di intervento che si adattassero al sistema scolastico italiano. È importante soprattutto chiarire un punto: quello che notiamo solo oggi per dei fatti particolarmente eclatanti avvenuti in alcune scuole e saliti agli onori della cronaca è un fenomeno che ha già una mole di studi e di esperienze alle sue spalle ma che oggi va visto con una particolare attenzione per le modalità con cui si manifesta. D'altra parte non tutto quello che ci viene prospettato come bullismo dai mass media rientra nella definizione che la comunità scientifica ha formulato.
Va detto inoltre che il modo con cui viene presentato il problema in alcuni ambiti fa perdere di vista quella che secondo me è la caratteristica principale del bullismo ovvero la relazionalità. Il bullismo non è solo un problema del bullo (che va ripreso, punito, curato) né solo della vittima (che va sostenuta, consigliata, protetta) ma è soprattutto un problema di relazioni che coinvolge i protagonisti (bullo e vittima) e tutto il contesto circostante (compagni, insegnanti, genitori ecc.).
A partire da questa idea si è sviluppato tutto un filone di interventi di comunità (il più significativo quello prospettato da Randall nel 1996) che hanno inteso potenziare la collaborazione fra le diverse agenzie al fine di elaborare e attuare un intervento a più livelli, nella scuola e nella comunità, con iniziative specifiche rivolte alle famiglie e ai singoli bambini in difficoltà.
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